L'isola dei sordobimbi

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L'isola dei sordobimbi è un film documentario che racconta con la sola forza delle immagini, attraverso tanti primi piani di bambini, la bellezza del crescere tutti insieme imparando a comunicare.

Titolo Originale: L'isola dei sordobimbi
Paese: ITALIA
Anno: 2009
Regia: Stefano Cattini
Sceneggiatura: Stefano Cattini
Produzione: DORUNTINA FILM E GIUSI SANTORO IN COLLABORAZIONE CON ASSOCIAZIONE CULTURALE SEQUENCE
Durata: 80
Candidature: David di Donatello per il miglior documentario

DeafKidsLand (52') - L'isola dei sordobimbi - un film di Stefano Cattini - versione 2014 from Doruntina Film on Vimeo.

Sinossi

Il primo rumore che esce dalla grande villa è la monotona cantilena delle suore. Sono solo le sei del mattino e già si espande con la sua bassa vibrazione a riempire i vecchi ambienti dagli alti soffitti.

I bambini, piccoli ospiti, dormono, ma non ne sono disturbati.
Nemmeno si può dire che ne siano cullati; hanno un sonno a prova di rumore.
I loro piccoli apparecchi acustici sono spenti e allineati nella vecchia cassetta di legno.
Ognuno di essi porta un nome: Ivan, Noemi, Loriana, Carola..

  “Quest'angolo del Paradiso era tutto d'oro, meno i prati, di erba folta affinché i bambini cadendo non si facessero male. Quanto giocavano quei bambini: le gare di corsa erano combinate in modo che tutti i partecipanti arrivavano primi, così erano felici e non nascevano invidie.
Giocavano anche alla lotta, e gli Angeli, travestiti da bambini, si facevano sconfiggere, procurando una viva gioia ai vincitori.
La guida disse che nell'inferno dei bambini invece, non si udivano che pianti e strilli. Anche là i bambini facevano le corse, ma tutti i partecipanti arrivavano al traguardo ultimi, cioè delusi e arrabbiati;  e ogni tanto un Angelo invisibile si avvicinava a un bambino e gli dava un forte pizzicotto; il bambino  si voltava di scatto e incolpava chi gli era accanto. Figurarsi le zuffe che nascevano.
Una grossa palla di gomma piombò sul naso di un beato, che, steso all'ombra di una fronzuta quercia, stava sfogliando un libro illustrato. Il beato si alzò di scatto: "Con tutti questi bambini, in Paradiso non ci si starà mai bene”
E si allontanò indignato.
Cesare Zavattini

 

 

I bambini sordi hanno una gestualità molto bella e una grande spontaneità. Molti di loro imparano, già a 3 o 4 anni a vivere lontano da casa e ad affrontare grandi sacrifici. I più piccoli sono aiutati dai più grandi ma debbono riuscire presto a tirare fuori i muscoli per non essere sopraffatti. Sono bambini molto autonomi, talvolta persino un po’ selvaggi.
Ho seguito alcuni di loro per un anno raccontandone i bizzarri percorsi attraverso un film documentario di 80 minuti scegliendo di usare un linguaggio di tipo cinematografico, senza interviste o voce fuori campo.

 

All'inizio il processo di apprendimento dei bambini sordi, così lento e complesso, era al centro del mio interesse. Molti di loro debbono lavorare duramente già a partire dai 3 anni di età per imparare a leggere le parole dalle labbra e a fare uscire suoni compiuti dalle proprie bocche.
Tuttavia, dopo aver conosciuto meglio i piccoli ospiti della scuola, ho capito che i metodi didattici assumevano sempre meno importanza nell'insieme del vasto e articolato mondo dei bisogni del bambino.
Così, il fulcro della narrazione del mio documentario si è rivelato essere la comprensione della miriade di piccoli e grandi gesti che servono quotidianamente per sopperire i piccoli e grandi bisogni dei bambini. Credo veramente che questi gesti stiano alla base di ogni percorso educativo e formativo rivolto ai bambini, indipendentemente dal fatto che essi siano sordi o perfettamente udenti.
Esistono ancora scuole in cui è possibile un atto d'amore verso la diversità, in cui si vuole credere che il diverso non sia necessariamente inferiore, in cui l'integrazione tra mondi altri è possibile, esempi concreti di "educazione alla democrazia".

 

PICCOLE STORIE: SINOSSI IVAN E LORIANA

A 3 e 4 anni le parole sono già formate, tu le puoi sentire e le puoi riprodurre, anche se non sei capace di comprenderne a fondo il significato. Ma non è per tutti così.
I bambini sordi arrivano alla scuola materna "senza suoni", "senza parole formate".
Ivan e Loriana dialogano attraverso 'segni da bambino', segni semplici; la loro lingua non è sciolta, sembra un corpo estraneo nella piccola bocca.
Ivan é docile e paziente, mentre la piccola Loriana, quando è stufa dei lunghi esercizi davanti allo specchio, comincia a ruggire come un leone.
Le suore, tenaci maestre, alternano sguardi minacciosi a sorrisi incoraggianti, inventandosi, ad ogni momento, nuove strategie.
All'improvviso, la magia: il lavoro si trasforma in gioco.

Interviste, note e riflessioni

I bambini sordi debbono lavorare pazientemente già a partire dai 3 anni di età per imparare a leggere e parlare. Ho presto scoperto che i metodi che  vengono adottati per insegnare loro cambiano da scuola a scuola e grosse dispute si accendono tra i difensori delle diverse teorie. Quando la mia confidenza con alcuni bambini è cresciuta, ho sentito che la metodologia didattica non era poi molto importante rispetto al vasto e articolato mondo dei loro bisogni. Da allora, ciò che più mi ha interessato è stata la comprensione della miriade di piccoli gesti che quotidianamente sopperiscono i piccoli e grandi bisogni dei bambini. Essi sono la base di ogni buon percorso educativo e formativo indipendentemente dalla loro capacità di percepire i suoni circostanti.

L’isola dei sordobimbi", di Stefano Cattini

 

Recensione di Roberto Rosa per SentieriSelvaggi

 

Il lavoro di Cattini a prima vista potrebbe sembrare un classico esempio di “arte impegnata nel sociale” con il fine di “sensibilizzare le coscienze”. Esso guarda, invece, ben oltre facendoci scoprire un’infanzia conquistata con la forza delle braccia e per la quale la comunicazione ha bisogno di tutti i sensi, e, in trasparenza, un’altra dove (spesso) la paura frena la principale conoscenza del mondo che è quella, appunto, multisensoriale

 

Nella campagna modenese c’è un'isola! In quest’isola (un vecchio casolare gestito dalle suore) piccolissimi bambini sordi (da tre anni fino ai primi anni dell’età scolare) imparano ad interagire con il mondo, a rompere quel muro di silenzio che non deve coincidere con l’incomunicabilità, a costruire (spesso con la forza delle mani) quell’universo di significato che sono le parole.

Quello che colpisce maggiormente lo spettatore è proprio la fisicità (e dunque lo sforzo che ne consegue) del percorso che è richiesto a questi bambini piccolissimi. Ed, insieme allo sforzo, la disciplina: durissima, che ne consegue. Disciplina fatta innanzitutto di estenuanti ripetizioni di esercizi sfibranti. Ma anche, e soprattutto, di rinuncia agli affetti familiari (molti bimbi, s’intuisce, non vedono i genitori anche per alcuni giorni) e di gestione di nuove dinamiche affettive dove spesso i più grandi aiutano i più piccoli, ma può capitare, al contempo, che s’inneschino processi conflittuali. Quello che ne risulta è la rappresentazione di un mondo infantile lontano anni luce da quello che ormai caratterizza la nostra società. Un mondo, il nostro, in cui i bambini sono davvero isolati dentro una campana di vetro che, per assurdo, può essere molto più difficile da superare di un handicap fortemente limitante come quello della sordità.

Come si vede, il lavoro di Cattini che potrebbe, a prima vista, sembrare un classico esempio di “arte impegnata nel sociale” con il fine di “sensibilizzare le coscienze”, guarda ben oltre facendoci scoprire un’infanzia conquistata con la forza delle braccia e per la quale la comunicazione ha bisogno di tutti i sensi, e, in trasparenza, un’altra dove (spesso) la paura frena la principale conoscenza del mondo che è quella, appunto, multisensoriale.

Il lavoro di Cattini si giova, indubbiamente, dell’esperienza fatta nel suo precedente corto “Ivan e Loriana”, anch’esso girato nella stessa scuola, tant’è vero che i due bambini sono ancora tra i protagonisti di “L’isola dei sordobimbi”.  Di questo lavoro il documentario conserva importanti scelte di tipo narrativo come l’assenza totale della voce fuoricampo e la contemporanea rinuncia alle interviste. Questo fa si che allo spettatore non venga concesso nessun timone, mentre lo si lascia navigare a vista fra le immagini cariche (grazie, anche, ad una fotografia particolarmente satura) di una forte valenza espressiva.

 

 

Stralci da interviste varie

 

“Sono particolarmente incuriosito dal titolo del documentario. Un'isola può essere al contempo luogo di separazione dal mondo o, al contrario di salvezza. Con quale accezione hai scelto tale titolo?”
L'isola per me ha chiaramente un'accezione positiva. Io amo le isole, soprattutto quelle piccole. Su un’isola, intesa come posto piccolo con confini ben definiti si possono osservare i semplici principi che  sono alla base della vita sociale, quello che crea i presupposti per la realizzazione di mondo  come insieme di comunità.
La vita sull'isola si basa su equilibri semplici ma anche fragili. In questa fragilità però noi riconosciamo anche grande valore e sacralità, riconosciamo la nostra responsabilità, gli uni verso gli altri. E' importante sentirsi parte di una comunità, ma certamente non in senso di esclusione degli altri, di coloro non ne fanno parte.
Nella scuola di Santa Croce i comportamenti delle singole persone hanno una ricaduta enorme sulla vita delle altre, ma questo vale anche e soprattutto in senso positivo, perchè i ragazzi conoscono il valore della parola rispetto.
Il fatto che nell'isola vivano circa 25 bambini sordi è importante, ma non determinante.
Non sono loro l'isola o gli isolani. Anzi, direi che sono particolarmente amati, e la loro attenzione è quotidianamente ricercata da tutti gli altri.
“I bimbi sordi imparano a comunicare con tutto il loro corpo. Cosa ti ha insegnato questa esperienza di vita?”
I bambini sordi hanno una gestualità molto bella, e anche quando cercano di parlare con la voce, fanno grandi movimenti con le bocche. I bambini che vengono da fuori (Milano, Siena, ecc..) imparano, già dall'età  di 3 o 4 anni a vivere lontano da casa. Diventano presto autonomi. I più grandi aiutano i più piccoli, ma, talvolta i più piccoli tirano fuori i loro muscoli per non essere sopraffatti dai grandi.
Quest'insieme di gestualità e fantasia li rende molto diversi dai bambini iperprotetti della nostra società maggioritaria, che spesso, nemmeno a 14 anni riescono ad andare a scuola senza l'accompagnamento dei genitori.
Gli stessi genitori poi, da un lato si pongono innanzi ai figli come sostituti dei loro coetanei, dall’altro cercano in ogni momento di prevenire il rischio che essi si procurino un sano livido, una sbucciatura e persino, in casi estremi, che possano sudare o sporcarsi.
I bambini sordi, al pomeriggio sembrano piccoli selvaggi, ma in realtà fanno esattamente quello che facevano tutti i bambini fino agli anni '70. Credo che ben pochi bambini udenti riescano divertirsi quanto loro.  Le suore, come educatrici sono molto attente, tuttavia lasciano una grande libertà ai bambini, anche perchè il loro parco giochi è un enorme prato su cui ci si può rotolare senza pericolo, tuffare con il pallone, girare con le biciclette. E' circondato da alberi su cui è ancora lecito arrampicarsi.
Tutto ciò per un regista, è manna dal cielo, il limite casomai è quello di dover scegliere tra una mole di storie e immagini davvero sorprendente.
“Come è nata la collaborazione con la band Like a shadow? E il tipo di supporto musicale l'hai immaginato fin dall'inizio?”
Ho montato le prime immagini del lungometraggio usando un brano dei Devotchka tratto dalla colonna sonora di Little Miss Sunshine. Le immagini erano quelle di bambini che giocano con le biciclette, l’acqua e le altalene. Le ha girate Samuele Wurtz, sono molto belle e sono diventate parte delle immagini dei titoli di coda perchè lo stile si discostava molto da quelle del resto del film ma non volevo rinunciarvi.
La musica dei Devotchka dava loro un’atmosfera splendida, un misto tra dolcezza, gioia e tanta nostalgia. In quel periodo un amico mi aveva suggerito di lavorare con il compositore Enrico Pasini, il quale mi aveva portato un po’ di musica sua e il cd dei Like a Shadow, gruppo con cui suona. Il cd era ‘Mu’. Enrico voleva puntava abbastanza su alcuni brani che io non sentivo adatti, poi ho scoperto ‘The lake’ che, grazie al  coro e alla tromba riusciva a restituirmi proprio le emozioni che mi avevano fatto innamorare dei Devotchka: dolcezza, gioia e nostalgia.
Ecco forse queste sono proprio le parole chiave del film, la dolcezza dell’ambiente, la gioia dei bambini e la nostalgia, quasi sicuramente la mia. Avrei voluto essere uno di loro in ogni momento. Essere parte di questo presente così vicino al passato ed essere accettato nella comunità.
“Che tipo di pubblico immagini per il film?”
Credo che sia riduttivo parlare di documentario, anche se racconta un momento di vita vera. Chiunque coltivi la curiosità di entrare in una scuola elementare di campagna, sedersi a fianco di un bambino e restarvi per un intero anno scolastico, è un potenziale spettatore.
E’ un punto di osservazione altamente privilegiato, anche se, trattandosi di cinema, un anno scolastico dura solamente 80 minuti.
Personalmente trovo che i film buoni sono quelli che riesco a rivedere più volte
Certi film che ho trovato davvero belli non ho mai desiderato rivederli, altri che magari mi hanno apparentemente colpito meno continuo a ricordarli e a sentirne nostalgia. Magari dopo aver visto un certo viso, un paesaggio o addirittura aver sentito uno strano profumo.
Credo che questo tipo di film contengano qualcosa che ha a che fare proprio con il Cinema, una parola che razionalmente sfugge ad una piena comprensione. Una parola che in parte ha a che fare proprio con la scatola dei ricordi.
“Qual è il messaggio principale che ti senti di lanciare con L'isola dei sordobimbi?”
Non credo di voler lanciare messaggi, ma credo che ognuno, se lo vuole, addirittura senza fatica vi potrà trovare qualcosa di prezioso.
Non tanto per merito del film quanto, soprattutto, dei bambini.
“Puoi spiegarci le differenze rispetto al cortometraggio ‘Ivan e Loriana’?”
Si tratta in entrambi i casi di documentari senza voce fuori campo e senza interviste, ma le similitudini, a parte il soggetto e i protagonisti, si fermano qui.
Io trovo che ci siano differenze fondamentali sul trattamento dei personaggi e dei caratteri che ne emergono di conseguenza.
Nel cortometraggio ho sentito l’esigenza di isolare i due protagonisti, e raccontare quasi esclusivamente la situazione che mi permetteva di metterli subito in relazione tra loro.
Nel lungometraggio, invece, io e la montatrice Giusi Santoro abbiamo potuto far iniziare la storia da molto più lontano. Abbiamo raccontato i problemi di ambientamento dei bambini; problemi che sono alla base del loro rapporto. Abbiamo anche potuto sviluppare il rapporto  stesso, arrivando a ribaltare quasi completamente i rapporti di forza tra Ivan e Loriana.
Un’altra differenza più specificatamente legata al montaggio è quella che riguarda il ritmo.
Il corto “Ivan e Loriana” si è rivelato efficace grazie, tra le altre cose, al ritmo veloce dei cambi scena; un ritmo che se fosse stato adottato per “L’isola” lo avrebbe reso apparentemente più vivace, ma, trascorsi i primi minuti di visione, sicuramente anche più pesante. Avrebbe ben presto esaurito il suo effetto, annoiando poi lo spettatore.
Trovo che ci siano tante altre differenza, ma, senza dilungarmi in dettagli, quella che mi salta agli occhi è legata alla sordità.
Nel cortometraggio la disabilità è stata messa in primo piano, direi quasi sottolineata, mentre nel lungometraggio la sordità viene descritta a fondo solo nella prima parte per poi permettere allo spettatore di dimenticarsene quasi. L’elemento che volevamo far emergere   era semplicemente ‘l’essere bambini’, ossia qualcosa di intatto in tutta la sua potenzialità di espressione futura.
Alla fine, avremmo forse voluto anche cambiare il titolo del film, eliminando il riferimento troppo esplicito alla sordità, ma non ci siamo riusciti. Non ce ne viene in mente nessuno che ci soddisfi pienamente.

"Il film è forte, e soprattutto è interessante poichè nessuno parla e spiega, le immagini parlano da sole.
Forse l'unico limite è che si tratta di un esperienza molto cattolica, in cui le suore la fanno da padrone."

Sul fatto che sia cattolica, non ci piove, visto che la scuola è gestita da suore ed ho scelto di girare proprio li. Per quanto mi riguarda, non sono un credente praticante, sono uno che deve ancora chiarirsi alcuni dubbi e continua a porsi molte domande a proposito della fede.
I soggetti religiosi mi sono sempre sembrati cinematograficamente interessanti, tanto per le tematiche quanto per le potenzialità visive.
Da bambino non ho mai frequentato scuole cattoliche, quindi non ho una mia esperienza di vita diretta. Mi sono però sempre immaginato, a torto o a ragione, l’ambiente delle scuole cattoliche come piuttosto rigido.
Quando ho iniziato a girare a Santa Croce ero pronto a rappresentare questa rigidità, contrapponendola alla leggerezza e spensieratezza dei bambini.
Mi ero davvero preparato a quello, anche esteticamente, immaginandomi
severe immagini a cavalletto.
Poi ho trovato quello che si può vedere nel film: maestre giovani e suore ottantenni, ricche di energia e di pazienza ma soprattutto di ironia e amore per la vita.
Non credo di aver ceduto particolarmente al sentimentalismo, anzi, da alcune maestre sono stato criticato per aver fatto sembrare le suore più severe e meno amorevoli di quanto siano in realtà.
Questo film non vuole rappresentare metaforicamente tutte le scuole cattoliche, ma solo questa scuola, l’unica che conosco.
Un genitore di un bambino udente, dopo aver visto il film mi ha scritto queste frasi, su cui mi trovo molto d’accordo e che credo possano far riflettere: “La cosa che più mi ha colpito e che, diciamo così, buca lo schermo, è la passione educativa di quelle donne; la loro tenacia, che non nasce dal fatto che sono toste -e lo sono!-, ma dalla stima che hanno di quei bimbi. Una stima a priori, non calcolata o soppesata, non frutto di attese o pretese ricambiate. Stimano quei bimbi per il motivo che semplicemente ci sono, che li hanno incontrati e che vivono con loro.”

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